Alimentazione e impatto ambientale
di Emanuela Barbero, autrice, webmaster di www.vegan3000.info
Quali sono le attività e i consumi umani meno sostenibili e col maggior impatto ambientale? Industria, trasporti, riscaldamento… ma è soprattutto l'alimentazione ad incidere sulle risorse del pianeta e sui consumi globali.
Allo scopo di valutare e studiare tutte le componenti della catena alimentare è nata la nutrition ecology o ecologia della nutrizione. Questo termine è relativamente recente ed è stato coniato nel 1986 da un gruppo di nutrizionisti dell'Università di Giessen, in Germania. Si tratta di una scienza interdisciplinare, che, oltre a prendere in esame tutte le componenti della catena alimentare, ne valuta gli effetti secondo 4 punti di vista principali: la salute umana, l'ambiente, la società e l'economia.
Il Centro Internazionale di Ecologia della Nutrizione (NEIC) - www.nutritionecology.org/it - è un comitato scientifico interdisciplinare preposto allo studio degli impatti delle scelte alimentari lungo tutta la catena di produzione e consumo del cibo, relativamente alla salute, all'ambiente, alla società e all'economia. Sul sito si legge che il concetto di ecologia della nutrizione ha radici antiche e nasce con la necessità di valutare le conseguenze dell'agricoltura su vasta scala e dell'allevamento di animali. Ma è solo alla fine del ventesimo secolo che il concetto di ecologia della nutrizione viene formalizzato. Dal punto di vista della nutrizione, la sostenibilità implica l'adozione di uno stile di vita che preveda:
• aspetto sociale: un'equa distribuzione delle risorse alimentari, in un mondo che conta oggi oltre 800 milioni di persone malnutrite;
• aspetto salutistico: la scelta di una qualità e quantità di cibo che assicuri una dieta adeguata (priva di carenze) e ottimale (che possa prevenire le malattie degenerative legate all'alimentazione, tipiche dei paesi ricchi);
• aspetto ecologico: un impatto sostenibile sull'ambiente.
Vediamo in particolare la ricaduta dell'alimentazione umana sull'ambiente.
Tra gli impatti sull'ambiente, uno dei maggiori problemi è costituito dal consumo di acqua. Oggigiorno la maggior parte dell'acqua sul pianeta viene consumata per le produzioni foraggiere destinate agli animali d'allevamento, per dissetarli (si pensi che una mucca da latte beve circa 200 litri di acqua al giorno) e per le operazioni di pulizia di stalle, sale di mungitura, luoghi di macellazione ed altro. E' così che ben il 70% dell'acqua utilizzata sul pianeta è consumato dalla zootecnia e dall'agricoltura, i cui prodotti servono in gran parte a nutrire gli animali d'allevamento. Negli Stati Uniti circa la metà dell’acqua potabile è destinata agli allevamenti di bestiame e il settimanale Newsweek ha calcolato che per produrre 5 chili di carne bovina è necessaria la stessa quantità di acqua consumata mediamente in un anno da una famiglia di 4 persone! In un mondo sempre più assetato e dove l’acqua sta diventando una risorsa via via più preziosa, sono necessari circa 100.000 litri di acqua per ottenere un solo chilo di manzo, mentre ne sono sufficienti 500 per le patate, 900 per il grano, 1910 per il riso e 2000 per la soia (1).
Il direttore generale dell'International Water Management Institute, prof. Frank Rijsberman, nella relazione presentata nell'ottobre 2004 al Congresso internazionale di scienza delle colture sosteneva che è la dieta di una persona, non tanto il tempo che trascorre sotto la doccia, a determinare quanta acqua consumi, al punto che chi ama le bistecche o gli hamburger attinge in quantità doppia di un vegetariano alle sempre più scarse risorse idriche mondiali. Nel suo rapporto si legge che ''in media ci vuole una quantità di acqua 70 volte maggiore per produrre cibo per le persone, rispetto all'acqua consumata per usi domestici''.
La Union of Concerned Scientists (USA) in un suo studio ha inoltre verificato che il settore della carne è il secondo maggior inquinatore dopo quello dell'automobile.
Risale a pochi mesi fa la relazione (2) della FAO (Food and Agriculture Organization), presentata presso le Nazioni Unite, dove si denunciava che gli allevamenti sono causa di quasi un quinto dell'inquinamento responsabile del riscaldamento del globo terrestre, sottolineando che il settore del bestiame rappresenta una minaccia ambientale in continua crescita.
La FAO, nella relazione "Livestock's long shadow", ha stimato che un raddoppio della produzione mondiale di carne fino ad arrivare a 465 milioni di tonnellate entro il 2050 ed un analogo aumento della produzione del latte dovrà obbligare il settore zootecnico a tenere in considerazione gli effetti che ciò produrrà sul clima. Henning Steinfeld, il maggior esperto tra gli autori della relazione della FAO, ha detto che "il bestiame è una delle principali cause dei più gravi problemi ambientali. Per porre rimedio alla situazione attuale occorre un'azione urgente".
La relazione ha reso noto che il bestiame ha prodotto il 35-40 per cento delle emissioni di metano e il 65 per cento delle emissioni di ossido di azoto, che è circa 300 volte più dannoso della CO2, per il riscaldamento globale.
L'alimentazione a base di carne e prodotti animali contribuisce in maniera rilevante non solo all'inquinamento e al rapido esaurimento delle risorse idriche di acqua dolce del pianeta, ma anche alla deforestazione, alla desertificazione, all'effetto serra, all'inquinamento della falde acquifere, dei fiumi e dei mari, all'eutrofizzazione. Ciò significa che se continueremo a nutrirci in questo modo consumeremo, letteralmente, la Terra.
Il costo ambientale è enorme: nella foresta amazzonica l'88% dei terreni disboscati è adibito a pascolo, quasi il 70% delle zone disboscate del Costa Rica e del Panama sono state destinate agli allevamenti, a partire dal 1960 più di un quarto delle foreste dell’America centrale sono state rase al suolo per ricavarne pascoli per gli animali da allevamento. E’ stato calcolato che per produrre un solo hamburger è necessario abbattere 5 metri quadrati di foresta tropicale e per produrre un chilo di filetto è necessario sacrificare 34 Kg di humus delle grandi foreste vergini, gli ultimi polmoni verdi del pianeta, causando così l’irrimediabile erosione e desertificazione del suolo. Sono state distrutte più foreste negli ultimi 50 anni che nei precedenti 5000!
Oltre al sistematico disboscamento della foresta amazzonica, anche aree sempre più estese delle Grandi Pianure del "West" americano si stanno trasformando in deserto, per non parlare della costante avanzata della desertificazione nelle zone semiaride, come in Africa, anche a causa dello sfruttamento dei suoli per l'allevamento estensivo.
Disboscamenti vasti e selvaggi, ottenuti attraverso enormi incendi decisamente dannosi per la nostra fragile atmosfera, sono all'ordine del giorno in molti paesi allo scopo di ricavare terreni da pascolo per i bovini; terreni che saranno ridotti ad aride lande desolate nel giro di pochi anni (mediamente dai 3 ai 5) perché nelle grandi foreste pluviali lo strato superficiale del suolo è sottile e contiene poco nutrimento. In seguito al rapido abbandono dei terreni divenuti mano a mano improduttivi, nuove foreste millenarie e lussureggianti verranno rase al suolo per continuare a rifornire di hamburger gli occidentali.
Come fa notare l’economista Jeremy Rifkin nel suo libro “Ecocidio” (ed. Mondadori, 2001), “la devastazione ecologica della popolazione bovina mondiale sopravanza altre numerose e più visibili fonti di rischio ambientale” sottolineando proprio il fatto che l’abbattimento di milioni di ettari di foreste vergini è reso necessario soprattutto per gli allevamenti di bestiame, la cui carne viene poi per lo più esportata nei paesi “ricchi”.
Il consumo di carne pro capite è più che raddoppiato nella seconda metà del XX secolo - e questo mentre la popolazione umana continua a crescere; di conseguenza, il consumo totale di carne è quintuplicato. Questo a sua volta ha imposto una pressione sempre più alta sulla disponibilità di acqua, di terra, di mangimi, di fertilizzanti, di combustibile, di capacità di smaltimento dei rifiuti e sulla maggior parte delle altre risorse limitate del pianeta.
Gli allevamenti intensivi producono non soltanto una rilevante percentuale del metano che contribuisce al surriscaldamento del pianeta e all’effetto serra ma anche enormi quantità di deiezioni animali (un manzo produce 20 chili di sterco al giorno!) che causano una vera e propria “fecalizzazione ambientale” con gravi conseguenze di inquinamento microbiologico delle falde acquifere sempre più contaminate da nitrati e nitriti. I rischi di epidemie di salmonellosi, ad esempio, sono molto più elevati nelle zone ad alta concentrazione di allevamenti industriali: eventualità purtroppo già verificatesi. Le deiezioni animali sono caratterizzate da un elevato contenuto di metalli pesanti e di residui di farmaci (soprattutto antibiotici e ormoni), senza dimenticare l’ammoniaca che contribuisce all’iper-acidificazione del suolo e alle piogge acide. Inoltre le deiezioni animali causano l’eutrofizzazione delle acque: si pensi allo sviluppo abnorme delle alghe alle foci del Po nell’Adriatico, che oltre al notevole danno economico ha provocato anche la morte per soffocamento di tantissimi pesci. Lo scienziato inglese Norman Myers, nel suo libro “I nuovi consumatori - Paesi emergenti tra consumo e sostenibilità” (ed. Ambiente, 2004), ci informa che negli Stati Uniti l’inquinamento organico prodotto dalla zootecnia è 130 volte maggiore di quello prodotto dalla popolazione umana. L'inquinamento dovuto ai nitrati contenuti negli escrementi animali compromette le falde acquifere e contribuisce ad aggravare il problema dell'eutrofizzazione di fiumi e mari.
Anche per questi motivi l’impronta ecologica (footprint) di chi mangia carne è molto più elevata di chi non la consuma: si è calcolato che essa incide per circa il 30% in più e, come se ciò non bastasse, il consumo di carne su scala internazionale sta aumentando costantemente, soprattutto nei paesi emergenti. La popolazione umana è in continua crescita ed è molto vorace: stiamo consumando velocemente le risorse del pianeta e lo stiamo facendo in modo irresponsabile, come se fossero illimitate.
La carne è da sempre il cibo dei ricchi, un tempo riservata prevalentemente alle classi abbienti e oggigiorno diventata il simbolo del benessere e dell’opulenza occidentale. L’Occidente infatti ha esportato non solo i suoi prodotti ma anche e soprattutto il suo stile di vita, che è così diventato un modello per i paesi emergenti che ne imitano sempre più i consumi e gli sprechi. Anche la carne diventa quindi un must, il simbolo di un maggior benessere faticosamente raggiunto e un’ostentazione del nuovo status sociale: in questa folle corsa verso il benessere si passa dunque velocemente dai piccoli allevamenti di sussistenza a quelli industriali. Si inizia coi polli in batteria, poi si introducono i grandi allevamenti suini fino ad arrivare ai dispendiosi bovini, gli animali col più basso “indice di conversione” (quantità di cibo necessaria a far crescere l’animale di un chilo) e che comportano in assoluto il maggior spreco di risorse, tant’è vero che sono stati definiti “fabbriche di proteine alla rovescia”. Un bovino ha un'efficienza di conversione delle proteine animali di solo il 6%, consuma cioè 790 kg di proteine vegetali per produrre meno di 50 kg di proteine animali.
Ancora una volta ricchezza significa spreco: “se posso permettermi di sprecare, allora sono ricco”.
E’ invece ormai evidente che uno sviluppo sostenibile non è e non può essere compatibile con un’alimentazione prevalentemente carnea, tanto più su scala globale.
La buona notizia è che pure in questo ambito è possibile spostarsi verso un'alimentazione più "leggera" e sostenibile in termini di impatto ambientale, attraverso l'uso prevalente di cibi di produzione locale e la progressiva riduzione dei consumi di prodotti animali. Ma non si allarmino i non vegetariani: anche riducendo o eliminando i prodotti animali è possibile nutrirsi in modo sano, vario e gustoso, scoprendo innumerevoli nuovi alimenti, facenti parte delle nostre tradizioni gastronomiche o di quelle di altri paesi.
Come per ogni passo che si fa verso una maggiore sostenibilità, ancora una volta si tratta di una scelta e non di una rinuncia. Si può scegliere semplicemente di alimentarsi ad un livello più sostenibile sulla catena alimentare: il numero di persone che prende questa decisione è in continua crescita, soprattutto tra i giovani e le persone con un buon livello di scolarizzazione e culturale. Ce lo conferma l'ultima indagine statistica risalente al gennaio 2006 (rielaborazione dati della AC Nielsen da parte della Eurispes nel suo "Rapporto Italia 2006"), da cui risulta che i vegetariani in Italia sono circa 6 milioni. Erano 2,9 milioni nel 2002 e 1,5 milioni a fine anni 90. Si stima che il superamento del numero di vegetariani su quello degli onnivori avverrà intorno al 2050, forse anche prima, in funzione della massa critica.
Settembre 2007
(1) Pimentel D., Pimentel M., "Sustainability of meat-based and plant-based diets and the environment", Am J Clin Nutr 2003;78(suppl):660S-3S
(2) FAO Report Creates a Stink Over Farm Animals, 30 novembre 2006
Link di approfondimento:
Centro Internazionale di Ecologia della Nutrizione (NEIC) - www.nutritionecology.org
Globalizzazione, fame nel mondo e modelli alimentari - www.ebasta.org
Sai cosa mangi: dalla fabbrica alla forchetta - www.saicosamangi.info
Società Scientifica di Nutrizione Vegetariana - SSNV - www.scienzavegetariana.it
Cucina etica: www.vegan3000.info
Diventare veg: www.vegfacile.info
Visitata 10371 volte