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L'impatto sull'ambiente degli allevamenti

Il mondo moderno industrializzato minaccia l'ambiente naturale in più e più modi. Di queste minacce, e di come porvi rimedio, si discute con passione da anni in vari ambiti. Ma viene sempre trascurato un fattore fondamentale: l'allevamento di bovini e altri animali per l'alimentazione umana.

L'allevamento su vasta scala, sia di tipo intensivo (in grosse stalle senza terra dove gli animali sono stipati, come accade in Italia), sia di tipo estensivo (i grandi ranch degli Stati Uniti, o i pascoli nei paesi del Sud del mondo) è chiaramente insostenibile dal punto di vista ecologico. Ormai, la metà delle terre fertili del pianeta viene usata per coltivare cereali, semi oleosi, foraggi, proteaginose, destinati agli animali. Per far fronte a questa immensa domanda - in continuo aumento, in quanto le popolazioni che tradizionalmente consumavano poca carne oggi iniziano a consumarne sempre di più - si distruggono ogni anno migliaia di ettari di foresta pluviale, il polmone verde del pianeta, per far spazio a nuovi pascoli o a nuovi terreni da coltivare per gli animali, che in breve tempo si desertificano. Per consumo di risorse, latte e carne sono indiscutibilmente i "cibi" più dispendiosi, inefficienti e inquinanti che si possano concepire: oltre alla perdita di milioni di ettari di terra coltivabile (che potrebbero essere usati per coltivare vegetali per il consumo diretto degli umani), e oltre all'uso indiscriminato della chimica, vi è la questione dell'enorme consumo d'acqua in un mondo irrimediabilmente assetato, il consumo di energia, il problema dello smaltimento delle deiezioni animali e dei prodotti di scarto, le ripercussioni sul clima, l'erosione del suolo, e la desertificazione di vaste zone.

L'uso di prodotti chimici

L'abuso di prodotti chimici per l'agricoltura nei paesi più "sviluppati" è evidente dai dati statistici: in Germania, Giappone, Gran Bretagna, se ne usano più di 300 kg per ettaro, in Italia 104, mentre i consumi scendono a 35 in Cina, a 22 in Messico, a 7 in Bangladesh e a 1 in Nigeria.

I prodotti chimici comprendono fertilizzanti, pesticidi (che uccidono gli insetti nocivi per le colture) ed erbicidi (che uccidono le piante nocive): tutti inquinano il suolo, l'acqua e il cibo stesso. Dal 1945 ad oggi il consumo di pesticidi è decuplicato, mentre i danni provocati dagli insetti alle colture è raddoppiato.

Non si tratta però di un problema legato all'agricoltura in sé e per sé, ma all'agricoltura finalizzata all'allevamento di animali: per quanto riguarda gli erbicidi, ad esempio, è indicativo il fatto che l'80% di quelli usati negli USA viene utilizzato nei campi di mais e di soia destinati all'alimentazione degli animali.

Il massiccio uso di fertilizzanti è dovuto soprattutto alla pratica della monocoltura, che risulta conveniente in quanto consente una industrializzazione spinta: vengono standardizzate le tipologie di intervento, i macchinari agricoli, le competenze e i tempi di lavoro. Se anziché alla monocoltura i suoli fossero destinati a coltivazioni a rotazione per uso diretto umano, non sarebbero necessari prodotti chimici, perché il suolo rimarrebbe fertile.

Il consumo di energia e risorse vegetali

Nel trasformare vegetali in proteine animali, un'ingente quantità delle proteine e dell'energia contenute nei vegetali viene sprecata: il cibo serve infatti a sostenere il metabolismo degli animali allevati, ed inoltre vanno considerati i tessuti non commestibili come ossa, cartilagini e frattaglie, e le feci.

Esiste il cosiddetto "indice di conversione", che misura la quantità di cibo necessaria a far crescere di 1 kg l'animale. Ad un vitello servono 13 kg di mangime per aumentare di 1 kg, mentre ne servono 11 a un vitellone (un bue giovane) e 24 ad un agnello. I polli richiedono invece solo 3 kg di cibo per ogni kg di peso corporeo. Se si considera poi che l'animale non è tutta carne, ma vi sono anche gli "scarti", queste quantità vanno raddoppiate.

Il rendimento delle proteine animali è ancora più basso.

Un bovino, ad esempio, ha un'efficienza di conversione delle proteine animali di solo il 6%: consumando cioè 790 kg di proteine vegetali, produce meno di 50 kg di proteine.

Oltre allo spreco di energia necessaria per il funzionamento dell'organismo, va contata l'energia necessaria per la coltivazione del cibo per gli animali e per il funzionamento degli allevamenti stessi.

Dal punto di vista dell'uso di combustibile fossile, per ogni caloria di carne bovina servono 78 calorie di combustibile, per ogni caloria di latte ne servono 36, e per ogni caloria che proviene dalla soia sono necessarie solo 2 calorie di combustibile fossile, un rapporto di 39:1 a sfavore della carne.

Il consumo d'acqua

Il 70% dell'acqua utilizzata sul pianeta è consumato dalla zootecnia e dall'agricoltura (i cui prodotti servono per la maggior parte a nutrire gli animali d'allevamento). Quasi la metà dell'acqua consumata negli Stati Uniti è destinata alle coltivazioni di alimenti per il bestiame.

Gli allevamenti consumano una quantità d'acqua molto maggiore di quella necessaria per coltivare soia, cereali, o verdure per il consumo diretto umano. Dobbiamo sommare, infatti, l'acqua impiegata nelle coltivazioni, che avvengono in gran parte su terre irrigate, l'acqua necessaria ad abbeverare gli animali e l'acqua per pulire le stalle.

Una vacca da latte beve 200 litri di acqua al giorno, 50 litri un bovino o un cavallo, 20 litri un maiale e circa 10 una pecora.

Il settimanale Newsweek ha calcolato che per produrre soli cinque chili di carne bovina serve tanta acqua quanta ne consuma una famiglia media in un anno.

Le deiezioni

In Italia gli animali da allevamento producono annualmente circa 19 milioni di tonnellate di deiezioni a scarso contenuto organico, che non possono essere usate come fertilizzante. Attualmente, lo smaltimento di questi liquami avviene per spandimento sul terreno, il che provoca un grave problema di inquinamento da sostanze azotate, che causa inquinamento nelle falde acquifere, nei corsi d'acqua di superficie, nonché eutrofizzazione nei mari.

Anche i farmaci somministrati agli animali possono passare nell'ambiente con i reflui e residuare nei suoli, nei vegetali, nelle acque e quindi negli alimenti di cui si ciba l'uomo, come le verdure o il pesce.

Calcolando il carico equivalente, ovvero trasformando il numero di animali in quello equivalente di popolazione umana che produrrebbe lo stesso livello di inquinamento da deiezioni, in totale, in Italia, gli animali equivalgono ad una popolazione aggiuntiva di 137 milioni di cittadini, cioè più del doppio del totale della popolazione.

Le ripercussioni sul clima

Le conseguenze più drammatiche del consumo di latte e carne si verificano nel Terzo Mondo: il disboscamento operato per far posto agli allevamenti di bovini destinati a fornire proteine animali all'Occidente ha distrutto in pochi anni milioni di ettari di foresta pluviale.

Ogni anno scompaiono 17 milioni di ettari di foreste tropicali. L'allevamento intensivo non ne è la sola causa, ma sicuramente gioca un ruolo primario: nella foresta Amazzonica l'88% dei terreni disboscati è stato adibito a pascolo e circa il 70 % delle zone disboscate del Costa Rica e del Panama sono state trasformate in pascoli. A partire dal 1960, in Brasile, Bolivia, Colombia, America Centrale sono stati bruciati o rasi al suolo decine di milioni di ettari di foresta, oltre un quarto dell'intera estensione delle foreste centroamericane, per far posto a pascoli per bovini. Per dare un'idea delle dimensioni del problema, si pensi che ogni hamburger importato dall'America Centrale comporta l'abbattimento e la trasformazione a pascolo di sei metri quadrati di foresta.

Paradossalmente, questa terra non è affatto adatta al pascolo: nell'ecosistema tropicale lo strato superficiale del suolo contiene poco nutrimento, ed è molto sottile e fragile. Dopo pochi anni di pascolo il suolo diventa sterile, e gli allevatori passano ad abbattere un'altra regione di foresta. Gli alberi abbattuti non vengono commercializzati, risulta più conveniente bruciarli sul posto.

La geografa Susanna Hecht racconta che il 90% degli allevamenti di bestiame nella ex-foresta amazzonica cessa l'attività dopo circa otto anni, per ricominciare in altre zone. Si possono percorrere centinaia di chilometri di strada nella foresta amazzonica senza trovare altro che terre abbandonate dove cresce una vegetazione secondaria.

Nelle zone semiaride, come l'Africa, lo sfruttamento dei suoli per l'allevamento estensivo (i cui prodotti vengono esportati nei paesi ricchi) porta alla desertificazione, cioè alla riduzione a zero della produttività di queste terre. Le Nazioni Unite stimano che il 70% dei terreni ora adibiti a pascolo siano in via di desertificazione.

Anche alcune parti delle Grandi Pianure del "West" americano si stanno trasformando in deserto. Ampi fiumi sono diventati ruscelli o si sono prosciugati del tutto lasciando spazio a distese di fango. Dove prima vi erano vegetazione ed animali selvatici di ogni specie, oggi non cresce più nulla e non vi è più vita animale. L'allevamento estensivo di bovini è stato, e continua a essere, la causa di tutto questo.

dott. Massimo Tettamanti, chimico ambientale

Fonte: VegAgenda 2004, Edizioni Sonda.



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