Dietro l'orrore - Non chiamateli animali
di LUISELLA BATTAGLIA*
«Giocare con la morte come fanno gli animali». E' possibile leggere in chiave etologico-naturalistica la vicenda delle torture nelle carceri irachene? Simili i torturatori agli animali? Ritorno alla ferinità perennemente in agguato? Disumanità alle porte?
Il gatto, è stato detto in un recente articolo, gioca con la lucertola e sapientemente la tortura.
Questa chiave di lettura, che assimila il comportamento umano a quello degli animali, è sulle prime seducente, ma a ben vedere, come tutte le proiezioni, appare gravemente riduzionistica e fuorviante. Intanto perché - ci piaccia o no - il comportamento del gatto che 'tortura' la lucertola è assolutamente innocente, nel senso più letterale, di là dal bene e dal male.
Il felino 'gioca' con la lucertola secondo un istinto primordiale che gli deriva da natura e che la cultura (educazione materna) ha rafforzato in lui.
È la nostra visione antropomorfica che ci fa vedere come tortura quello che è un gioco insieme innocente e funzionale alla sua attività di predatore che si tiene in esercizio.
Al gatto non importa affatto quello che prova la lucertola e gli è del tutto indifferente il suo destino; non si pone alcun problema nei suoi confronti né è in grado di immaginare i suoi tormenti di animale braccato: è una delle tante prede possibili su cui può esercitare il suo istinto. La sua morte fa parte del gioco: gioco crudele, per noi, non per lui.
Del tutto diverso è il caso dell'uomo torturatore.
Le fotografie mostrano certo risate sghignazzi ostentati (troppo ostentati) ma il 'gioco' è solo apparente giacché cela in realtà un progetto 'rieducativo', un disegno politico: umiliare per sconfiggere, annichilire per rieducare, ridicolizzare per azzerare l'altrui identità.
La tortura ha, certo, le forme del gioco, ma solo alla superficie.
In realtà, il torturatore sa e immagina molto bene ciò che il torturato prova: in ciò consiste il suo sadismo, il suo intento davvero crudele.
Che lo voglia o meno, l'uomo è dotato di una coscienza morale di cui gli animali sono (felicemente) privi e che lo spinge, talora, a comportamenti aberranti – almeno secondo i codici morali in cui universalmente ci riconosciamo – ma comunque sempre intenzionati, dotati di senso.
Ciascuno di noi è in grado di farsi un'idea di quello che sta passando nella mente di un altro, il che ci permette di capire almeno approssimativamente il nostro prossimo nelle diverse circostanze della vita. È quella che si è soliti chiamare 'teoria della mente'. Ma non si tratta solo di aspetti conoscitivi: una compartecipazione emotiva, anche avulsa da una piena presa di coscienza, è alla base di un grande numero di comportamenti individuali che hanno uno sfondo sociale, dall'antagonismo alla pietà, dall'altruismo alla convivialità all'impegno sociale etc.
A differenza degli animali, l'uomo è dotato di una capacità di immaginare e compartecipare: sa cosa significa soffrire. Per questo è in grado di provare sia quel brivido di empatia che lo fa esitare davanti a un'azione che sa, immagina possa fare molto male a un suo simile, sia di godere di quel piacere sadico che lo spinge a infliggere proprio quell'azione che sa, immagina possa distruggerlo.
Sbaglieremmo, pertanto, a considerare la condotta di chi tortura come un comportamento che ci assimila naturalisticamente agli animali, soprattutto alla luce della sciagurata proposta di legge sulla tortura approvata recentemente dalla Camera e che non ha suscitato finora il dibattito pubblico che avrebbe meritato. Tale proposta ci ricorda drammaticamente che la storia relativa alla tortura non solo non è finita ma si sta riaprendo, rimettendo in gioco l'antica idea liberale dell'habeas corpus, il diritto all'inviolabilità della persona, che si riteneva ormai patrimonio definitivamente acquisito.
In realtà, lungi dall'essere un gioco animale, la tortura è impresa umana, forse troppo umana, e di questo dobbiamo provare imbarazzo, vergogna, indignazione, riconoscendo in essa lo specchio oscuro della nostra umanità deformata.
Tratto da: Il Secolo XIX del 13 maggio 2004
*membro del Comitato nazionale di bioetica
«Giocare con la morte come fanno gli animali». E' possibile leggere in chiave etologico-naturalistica la vicenda delle torture nelle carceri irachene? Simili i torturatori agli animali? Ritorno alla ferinità perennemente in agguato? Disumanità alle porte?
Il gatto, è stato detto in un recente articolo, gioca con la lucertola e sapientemente la tortura.
Questa chiave di lettura, che assimila il comportamento umano a quello degli animali, è sulle prime seducente, ma a ben vedere, come tutte le proiezioni, appare gravemente riduzionistica e fuorviante. Intanto perché - ci piaccia o no - il comportamento del gatto che 'tortura' la lucertola è assolutamente innocente, nel senso più letterale, di là dal bene e dal male.
Il felino 'gioca' con la lucertola secondo un istinto primordiale che gli deriva da natura e che la cultura (educazione materna) ha rafforzato in lui.
È la nostra visione antropomorfica che ci fa vedere come tortura quello che è un gioco insieme innocente e funzionale alla sua attività di predatore che si tiene in esercizio.
Al gatto non importa affatto quello che prova la lucertola e gli è del tutto indifferente il suo destino; non si pone alcun problema nei suoi confronti né è in grado di immaginare i suoi tormenti di animale braccato: è una delle tante prede possibili su cui può esercitare il suo istinto. La sua morte fa parte del gioco: gioco crudele, per noi, non per lui.
Del tutto diverso è il caso dell'uomo torturatore.
Le fotografie mostrano certo risate sghignazzi ostentati (troppo ostentati) ma il 'gioco' è solo apparente giacché cela in realtà un progetto 'rieducativo', un disegno politico: umiliare per sconfiggere, annichilire per rieducare, ridicolizzare per azzerare l'altrui identità.
La tortura ha, certo, le forme del gioco, ma solo alla superficie.
In realtà, il torturatore sa e immagina molto bene ciò che il torturato prova: in ciò consiste il suo sadismo, il suo intento davvero crudele.
Che lo voglia o meno, l'uomo è dotato di una coscienza morale di cui gli animali sono (felicemente) privi e che lo spinge, talora, a comportamenti aberranti – almeno secondo i codici morali in cui universalmente ci riconosciamo – ma comunque sempre intenzionati, dotati di senso.
Ciascuno di noi è in grado di farsi un'idea di quello che sta passando nella mente di un altro, il che ci permette di capire almeno approssimativamente il nostro prossimo nelle diverse circostanze della vita. È quella che si è soliti chiamare 'teoria della mente'. Ma non si tratta solo di aspetti conoscitivi: una compartecipazione emotiva, anche avulsa da una piena presa di coscienza, è alla base di un grande numero di comportamenti individuali che hanno uno sfondo sociale, dall'antagonismo alla pietà, dall'altruismo alla convivialità all'impegno sociale etc.
A differenza degli animali, l'uomo è dotato di una capacità di immaginare e compartecipare: sa cosa significa soffrire. Per questo è in grado di provare sia quel brivido di empatia che lo fa esitare davanti a un'azione che sa, immagina possa fare molto male a un suo simile, sia di godere di quel piacere sadico che lo spinge a infliggere proprio quell'azione che sa, immagina possa distruggerlo.
Sbaglieremmo, pertanto, a considerare la condotta di chi tortura come un comportamento che ci assimila naturalisticamente agli animali, soprattutto alla luce della sciagurata proposta di legge sulla tortura approvata recentemente dalla Camera e che non ha suscitato finora il dibattito pubblico che avrebbe meritato. Tale proposta ci ricorda drammaticamente che la storia relativa alla tortura non solo non è finita ma si sta riaprendo, rimettendo in gioco l'antica idea liberale dell'habeas corpus, il diritto all'inviolabilità della persona, che si riteneva ormai patrimonio definitivamente acquisito.
In realtà, lungi dall'essere un gioco animale, la tortura è impresa umana, forse troppo umana, e di questo dobbiamo provare imbarazzo, vergogna, indignazione, riconoscendo in essa lo specchio oscuro della nostra umanità deformata.
Tratto da: Il Secolo XIX del 13 maggio 2004
*membro del Comitato nazionale di bioetica
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