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Ecologia ed Alimentazione Vegetariana


di Marco Lorenzi

E' possibile esaminare l'importanza dell'alimentazione vegetariana almeno da quattro diversi punti di vista: quello etico, quello salutistico, quello socio-economico ed infine quello ecologico.

In questo articolo intendo occuparmi di quest'ultimo aspetto, troppo spesso dimenticato o sottovalutato sia dai vegetariani stessi sia da chi si definisce ecologista.

Indubbiamente l'attenzione verso i problemi ambientali sta aumentando nella maggioranza delle persone dal momento che ci si sta finalmente rendendo conto che l'uomo non può più permettersi di comportarsi come ha fatto fino ad ora, sfruttando le risorse ambientali nell'illusione che queste ultime siano inesauribili e che gli equilibri naturali siano immutabili. Nonostante questa sempre più diffusa presa di coscienza - un pò tardiva, peraltro - è raro che la gente si renda conto dell'impatto ambientale dell'alimentazione carnea. Difficilmente la persona comune associa la fetta di carne che si ritrova nel piatto con le sofferenze e la macellazione sistematicamente organizzata di miliardi di esseri viventi; ancor più difficilmente la persona comune associa la sua fettina di carne con le devastazioni ecologiche che la sua produzione comporta. Il consumismo, l'edonismo e il conseguente egoismo della moderna società hanno fatto dimenticare ai più non solo che la carne è il prodotto dello sfruttamento su scala industriale della Morte ma anche che carne significa soprattutto: deforestazione inquinamento del terreno inquinamento dell'acqua inquinamento dell'aria.

Le ragioni per le quali l'industria della carne comporta necessariamente la deforestazione di ampi territori sono da ricercarsi in primis nel rendimento proteico ed energetico della produzione della carne rispetto a quello dei prodotti vegetali oltre che, ovviamente, dal continuo aumento del consumo di prodotti animali da parte dei paesi industrializzati. Infatti secondo il ministero dell'agricoltura degli Stati Uniti sono necessari 16Kg di cereali e soia per produrre un solo Kg di carne di bue e 6 Kg di alimenti composti per produrre un Kg di carne di maiale (1). Se destinassimo un ettaro di terra all'allevamento bovino, otterremmo in un anno 66Kg di proteine. Se destinassimo lo stesso terreno alla coltivazione della soia otterremmo nello stesso tempo 1848 Kg di proteine cioe' 28 volte di piu' (2). Va sottolineato che le proteine della soia hanno lo stesso valore nutrizionale delle proteine contenute nei cibi animali e che la soia potrebbe essere utilizzata come unica fonte proteica nella propria dieta (3). Per quanto riguarda il contenuto energetico, un ettaro coltivato a patate permette di ottenere 102.080 Mj di energia, un ettaro coltivato a riso 87.768 Mj (4). Invece un ettaro di terreno destinato all'allevamento di manzo permette di ottenere 4.796 Mj di energia mentre lo stesso spazio adibito all'allevamento di pollame permette di ottenere 7.056 Mj (5).

Questi dati dimostrano chiaramente che da un punto di vista del rendimento l'allevamento di animali da carne è un vero e proprio controsenso. In sostanza avviene che i terreni agricoli che potrebbero fornire cibo direttamente all'uomo vengono invece usati per produrre foraggio per gli animali. Questo comporta ovviamente una notevole perdita di resa produttiva e la conseguente inevitabile necessità di adibire sempre più terreno alla coltivazione di foraggio, e quindi di disboscare aree sempre maggiori di foreste da trasformare in terreni agricoli o in pascoli. Tutto ciò quando non avviene che gli stessi prodotti agricoli che potrebbero essere direttamente consumati dall'uomo per soddisfare i suoi bisogni alimentari vengono invece destinati all'alimentazione degli animali da allevamento con conseguenze analoghe.

Le statistiche sulla deforestazione dei territori del Sudamerica e dell'Africa confermano i dati sopra esposti: nella foresta dell' Amazzonia l'88% dei terreni disboscati è adibito a pascolo (6), quasi il 70 % delle zone disboscate del CostaRica e del Panama sono state trasformate in pascoli (7), a partire dal 1960 oltre un quarto delle foreste del centro America sono state spazzate via per ottenere spazio per gli allevamenti (8). Possiamo stimare che per produrre un hamburger di un etto bisogna ripulire dalla vegetazione più di 5 metri quadrati di foresta (9) e che mezzo chilo di filetto "costano" 17 Kg di humus di terreni americani (10).

Una delle conseguenze della deforestazione e del successivo sfruttamento intensivo dei terreni da pascolo è la desertificazione. L'eliminazione della vegetazione naturale comporta conseguenze drammatiche per il suolo che, non più protetto dalla suddetta vegetazione, è esposto all'azione del sole, della pioggia, dell'irrigazione e del vento che rapidamente spazzano via l'humus che costituisce la parte superiore del terreno e che non può essere reintegrato, se non in piccola parte, con la concimazione. Inoltre l'eccessiva concentrazione di capi di bestiame nei pascoli tende a renderela terra dura e compatta per effetto del continuo schiacciamento operato dagli zoccoli dei bovini (11) e questo fa sì che la terra non sia più in grado ditrattenere l'acqua piovana che in tal modo scorre via trascinando con sè l' humus.

Negli USA quasi un terzo dello strato coltivabile del terreno è andato perso a causa della coltivazione intensiva di foraggi per un totale di 6 miliardi di tonnellate di terra (12).

Gli allevamenti intensivi sono anche causa di un grave inquinamento chimico del terreno innanzi tutto a causa dell'enorme quantità di deiezioni prodotte e difertilizzanti organici necessari per la coltivazione intensiva di foraggi.
In Italia vengono prodotti annualmente circa cento milioni di quintali di deiezioni animali che non possono essere smaltiti medianti depuratori essendosi questi ultimi già dimostrati inefficaci nel risolvere il problema (13).
La concimazione mediante deiezioni animali comporta infatti gravi conseguenze ambientali a causa della loro mutata composizione chimica. Esse sono caratterizzate da un basso contenuto di sostanza secca da una altocontenuto di metalli pesanti, quali zinco e rame, che sono somministrati artificialmente agli animali allevati e che possono raggiungere nel terreno concentrazioni notevoli, al limite della fitotossicità; inoltre sono causa di una vera e propria "fecalizzazione ambientale" con i conseguenti rischi di inquinamento microbiologico che una simile concentrazione di deiezioni comporta anche per lefalde acquifere, sempre più contaminate da nitrati e nitriti (14).

Il rischio di un aumento dell'incidenza di salmonellosi e di patologie dovute a microorganismi patogeni contenuti nelle deiezioni animali sono estremamente concreti come dimostra la grave epidemia di salmonellosi dell'ottobre del '91 nella provincia di Parma, una delle province in cui l'allevamento intensivo è maggiormente praticato e come dimostrano i dati epidemiologici dell'incidenza di questa malattia nella provincia di Forlì (5 volte superiore alla media nazionale), altra zona ad alta concentrazione di allevamenti (15).

Nel bacino idrografico del Po vengono riversati le deiezioni di 4 milioni di bovinie di 7 milioni di suini per un totale di 190.000 tonnellate di deiezioni ogni anno (16). Le conseguenze sono ben note: la drammatica eutrofizzazione dell' Adriatico che causa lo sviluppo abnorme di alghe e la morte della fauna ittica.

Oltre al contenuto organico e al contenuto di metalli pesanti degli escrementi animali esiste il problema dei residui dei farmaci (soprattutto antibiotici edormoni). La pericolosità ambientale dei rifiuti degli allevamenti spinge gli agricoltori adutilizzare concimazioni chimiche che tuttavia hanno pure esse conseguenze gravi per l'ambiente. Infatti secondo alcuni studi (17) circa il 50 % dell'azoto dei concimi chimici viene disperso soprattutto negli habitat aquatici ed è una delle cause della diminuzione degli animali anfibi (in particolar modo gli anuri) che popolano gli stagni e, ancora una volta, dell'eutrofizzazione dei mari. In America il problema raggiunge livelli insostenibili. Basti pensare che gli allevamenti americani producono 1 miliardo di tonnellate di deiezioni ogni anno(18) e che ogni giorno i soli allevamenti di polli americani ne producono 1 milioni di Kg (19).

Sempre a proposito dei composti azotati presenti nelle deiezioni va detto che essi ed in particolar modo l'ammoniaca (NH3) contribuiscono in maniera sostanziale alla iper-acidificazione del suolo e alle piogge acide che causano gravi danni alle foreste di tutto il mondo. Il comitato di ricerca sull'inquinamento atmosferico istituito nel 1992 dal Governo tedesco ha infatti concluso che "le emissioni di ammoniaca sono dovute, sia a livello nazionale, sia a livello del continente europeo, sia a livello globale, per il 90% all'agricoltura, e nello specifico, per l' 80% agli allevamenti" .

Un altro grosso problema degli allevamenti intensivi e dei terreni coltivati a foraggio è il loro enorme bisogno di acqua. L'acqua potabile viene utilizzata non solo per irrigare le sempre maggiori estensioni di terreno richieste per soddisfare il bisogno di foraggi, ma anche perpulire continuamente le stalle ed i macelli dai residui della macellazione e dagli escrementi, oltre che per abbeverare gli animali. Per produrre un grammo di proteine animali è necessario usare in media 15 volte la quantità d'acqua necessaria per produrre un grammo di proteine vegetali, e del resto basta pensare che quasi la metà dell'acqua potabile utilizzata ogni anno negli USA è destinata agli allevamenti (20 ). Questo contribuisce alla diminuzione delle riserve di acqua potabile di tutto il mondo (in USA il livello delle acque di alcuni bacini ha raggiunto i minimi storici dall'ultima era glaciale (21), nonostante ancora oggi oltre un terzo della popolazione mondiale non abbia a disposizione una quantità adeguata di acqua potabile.

L'industra della carne è inoltre tra i diretti responsabili del dell'innalzamento globale della temperatura dovuto all'effetto serra, innanzi tutto a causa del suo notevole bisogno di energia in gran parte prodotta con combustibili fossili. Secondo Ernst U. v. Weizecker, capo del "Wuppertal-Institute for Climate, Environment and Energy", "il contributo all'effetto serra dato dagli allevamenti è circa pari a quello dato dalla totalità del traffico degli autoveicoli nel mondo".
Per rendere l'idea basti dire che per produrre la quantità di carne consumata in un anno da una famiglia americana media di quattro persone è necessario utilizzare 1170 litri di combustibile con il conseguente rilascio nell'atmosfera di 2.5 tonnellate di anidride carbonica (circa come per un uso di sei mesi di una automobile di media cilindrata) (23).

Un altro dato può essere significativo per rendere l'idea dell'efficienza energetica della produzione della carne rispetto a quella dei cereali: per ottenere un Kg di farina è necessario utilizzare circa 22g di petrolio, per produrre un Kg di carne è necessario impiegare 193g di petrolio: quasi 9 volte tanto. (24)

L'altra causa dell'aumento dell'effetto serra collegata con il consumo di carne è la produzione di metano dovuto al processo digestivo dei bovini. Gli 1.3 miliardi di bovini presenti sulla terra producono circa 60 milioni di tonnellate di metano che rappresenta circa il 12% di tutto il metano emesso in atmosfera da attività umane e da fenomeni naturali (25). Esso è un gas serra come l'anidride carbonica ma è decisamente più dannoso di quest'ultima dato che una molecola di metano cattura oltre 25 volte più energia solare di quanto faccia una molecola di CO2. Infine non va dimenticato il contributo all'emissione di gas serra da parte della deforestazione di cui sopra: il 20% dell'anidride carbonica emessa è prodotta dalla combustione del legname derivante dalle operazioni di disboscamento.

Tutto quello che è stato detto fino ad ora riguarda esclusivamente la produzione ed il consumo di carne ma non bisogna affatto credere che, al contrario, il consumo di pesce sia compatibile con il rispetto dell'ambiente e con lo sviluppo sostenibile delle economie. Lo sfruttamento delle cosiddette "risorse ittiche" ha superato ormai già da tempo i livelli compatibli con il mantenimento costante degli stock e questo è dimostrato dalla diminuzione delle catture nonostante la domanda di prodotti ittici sia in aumento: se nel 1989 venivano pescati 86 milioni di tonnellate di pesce, nel 1992 le catture si sono ridotte a 82 milioni di tonnellate, secondo dati FAO (26). La pesca è ormai un business colossale e di conseguenza sta comportando uno sfruttamento forsennato dei mari mediante tecnologie sempre più sofisticate, e mentre la disponibilità di pesce si sta rapidamente riducendo, la domanda, pilotata da campagne pubblicitarie finalizzate all'incremento del consumo, sta aumentando costantemente: in Italia, per esempio, il consumo pro capite di pesce e' passato da 16 Kg/anno del 1988 a 24 Kg/anno del 1993 (27).

L'aumento della domanda e la diminuzione della disponibilità delle risorse ittiche comporta un aumento dei prezzi che a sua volta induce uno sfruttamento ancora più intenso.

Secondo dati del 1994 forniti dal WWF Inglese vi sono almeno 15 specie di pesci commercialmente sfruttabili il cui stock è notevolmente ridotto, 12 specie il cui stock è sovrasfruttato, e 3 specie già scomparse (28).
Inoltre è da rilevare il problema degli scarti della pesca che evidenzia chiaramente la rapacità con la quale l'uomo sfrutta i mari. Basti pensare che, secondo i dati della FAO, ogni anno vengono scaricati in mare tra i 17 e i 29 miliardi di tonnellate di pesce pescato (e quindi ormai già morto) in quanto non gradito dai consumatori dei paesi ricchi (29).

Spero che i dati qui raccolti possano servire a rafforzare le convinzioni di chi ha già compiuto la scelta di diventare vegetariano e che possano fornire argomentazioni per convincere anche coloro che si definiscono ecologisti che il vegetarismo non è affatto una follia di isterici ed esaltati animalisti, ma una scelta responsabile e a mio avviso irrinunciabile se si vorrà percorrere la strada di uno sviluppo sostenibile che non è, nè potrà mai essere, compatibile con l'alimentazione carnea. Credo che l'insieme dei dati che ho sopra esposto e lo scenario da essi delineato, pur rappresentando solo una parte delle devastazioni ecologiche che solo il vegetarismo potrebbe impedire, sia sufficientemente drammatico per indurre a riflettere ogni persona che abbia a cuore il futuro del nostro pianeta sebbene ancora oggi la stragrande maggioranza della gente preferisce mettere la testa sotto la sabbia e sacrificare sulla propria mensa non solo miliardi di animali ma anche una parte delle possibilità di sopravvivenza del nostro ambiente naturale.

Posso solo augurarmi che così come l'ecologismo, dopo essere stato ignorato per anni, è diventato uno delle principali preoccupazioni delle nuove generazioni, allo stesso modo anche la scelta vegetariana possa essere considerata nel prossimo futuro un atto di responsabilità e di sensibilità sociale, ecologica ed etica.

Marco Lorenzi (lormar@comm2000.it)


NOTE:
(1) J. André, Sette miliardi di vegetariani, Giannone Ed.
(2) Ibid.
(3) Young VR. Soy protein in relation to human protein and amino acid nutrition. J Am Diet Assoc. 1991;91:828-835. Cit. in American Dietetic Association Position Paper on Vegetarianism (1993 & 1997).
(4) F. Caporali, Ecologia per l'agricoltura, UTET 1991.
(5) Ibid.
(6) "The year the world caught fire", rapporto del WWF International, Dic. 1997.
(7) Catherine Caulfield, "A Reporter at Large: The Rain Forests," New Yorker, January 14, 1985, 79.
(8) Ibid.
(9) Julie Denslow and Christine Padoch, People of the Tropical Rainforest (Berkeley: University of California Press, 1988), 169.
(10) Alan Durning, "Cost of Beef for Health and Habitat," Los Angeles Times, September 21, 1986, V3. (Riporta una statistica del Worldwatch Institute)
(11) John Lancaster, "Public Land, Private Profit," Washington Post, A1, A8, A9; Lynn Jacobs, Waste of the West: Public Lands Ranching (Lynn Jacobs: Tuscon, Books, 1982), 80.
(12) Frances Moore Lappè, Diet for a Small Planet (New York: Ballantine Books, 1982), 80.
(13) Roberto Marchesini, Oltre il muro: la vera storia di mucca pazza, Muzzio Ed.
(14) Ibid.
(15) A. Sacchetti. L'uomo antibiologico, Feltrinelli ed. 1985, Op. cit. in Roberto Marchesini, Oltre il muro: la vera storia di mucca pazza, Muzzio Ed.
(16) R. Marchesini, Op. cit.
(17) Potzolu G. , Pecchiai L. Agricoltura ed alimentazione, Edizioni Associate, 1981. Op. cit. in Roberto Marchesini, Oltre il muro: la vera storia di mucca pazza, Muzzio Ed.
(18) M. E. Ensminger, Animal Science (Danville, IL: Interstate Publishers, 1991), 187, table 5-9. (19) Mountney, George J.; Parkhurst, Carmen R., 1995, Poultry Products Technology, Third Edition, Food Products Press, Binghamton, NY, p. 335.
(20) Frances Moore Lappe', Diet for a Small Planet (New York: Ballantine Books, 1982), 80.
(21) Sandra Postel, Water: Rethinking Management in an Age of Scarcity, Worldwatch Paper 62 (1984).
(22) Alan Durning, "Cost of Beef For Health and Habitat," Los Angeles Times, 3; Stima basata per un consumo medio annuale per persona di 30 Kg di carne.
(23) Dalla sua prefazione al libro di J. Rifkin "Das Imperium der Rinder", (l'impero del bestiame), Campus Verlag, 1992.
(24) Le secteur agro-alimentaire face au probleme de l'energie, OCSE, Parigi 1982. Op. cit. in: J. Andre', Sette miliardi di vegetariani, Giannone Ed.
(25) Fred Pearce, 37; Methane emissions from livestock from World Resources Institute et al. 1990-91, 346, Table 24.1; Cattle emissions as apercent of livestock emissions from Michael Gibbs and Kathleen Hogan,"Methane", EPA Journal, March/April 1990.
(26) Greenpeace News 1/1995.(27) Ibid.(28) Ibid.
(29) Rapporto FAO presentato alla riunione del comitato per la gestione della pesca tenutasi tra il 10 ed il 14 marzo 1995.

Si ringrazia Marco Lorenzi per l'articolo pubblicato su questo sito.




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