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Solidarietà, empatia e animalismo



Dall'editoriale di Peacelink del 19-12-1999 ( http://www.peacelink.it/editorl/edit_53.html )

di Marina Berati

Animalismo è solidarietà e rispetto esteso a tutti gli esseri senzienti che con noi dividono la Terra. É la stessa solidarietà ed empatia che di solito viene riservata (quando va bene!) alle persone della nostra stessa specie, estesa anche alle altre specie.

Essere animalista non significa "amare il proprio gatto", nè "amare i cani" (anche se di certo questo è un primo passo nella giusta direzione, ma non bisogna fermarsi!), è qualcosa di molto più profondo.

La parola chiave, secondo me, è proprio empatia.

Capacità di riconoscere i sentimenti altrui, soprattutto la sofferenza, il disagio, e farli propri, per capire la situazione dell'altro. É una parola poco usata, eppure importantissima, che può spiegare molto.

Non dobbiamo certo sentirci in obbligo di amare tutti gli altri animali, umani e non umani. Ma se vogliamo dirci solidali, pacifisti, non violenti, dobbiamo almeno rispetto alla dignità dell'altrui vita.

É chiaro che una persona che sta mediamente bene e già vive una vita dignitosa non ha bisogno del nostro amore o della nostra empatia.
É soprattutto nelle situazioni di disagio e sofferenza che scatta la molla dell'empatia, che ci fa sentire il disagio altrui e ci fa agire per aiutarla. E il primo passo da fare è non contribuire a crearla, questa sua sofferenza.

Immagino che a tutte le persone che si riconoscono nelle istanze e nel modo di vedere il mondo di Peacelink, siano chiare e condivisibili queste mie considerazioni. Meno chiari, certamente, saranno i motivi per cui io sostengo che per una vera solidarietà e non violenza, questa filosofia di vita vada estesa in modo da comprendere anche gli animali non umani, ma solo perché non ci si è mai soffermati a riflettere, io credo, non perché sia difficile da capire questa posizione. Occorre mettere da parte i propri pregiudizi. Alla fin fine, è solo una... questione di abitudine.

Nessuno può negare che gli animali che ci circondano provino, come noi, sentimenti di sofferenza, di contentezza, di tristezza, di allegria, di affetto, di amore. Al di là di quello che in questo campo ha dimostrato la giovane scienza dell'etologia, l'esperienza di tutti i giorni ci insegna questo. Chiunque abbia un animale domestico lo sa bene. Allora perché non dovremmo provare empatia anche per questi animali che così tanto hanno in comune con noi? Non c'è ragione.

Non si tratta, come purtroppo molti sono inclini a pensare, di creare una contrapposizione tra "noi" e "loro" tra "nostri diritti" e "loro diritti". O, per lo meno, la contrapposizione esiste tanto quanto esiste per gruppi distinti di esseri umani, divisi vuoi dalla nazionalità, vuoi dalla religione, vuoi dallo stile di vita, dal sesso, dal colore della pelle.

Ma se predichiamo l'uguaglianza, la solidarietà, la fratellanza, allora queste contrapposizioni devono venire a cadere, devono sparire gli egoismi che ci fanno dividere in "noi" e "loro".
E allo stesso modo in cui devono sparire tra umani, devono sparire anche tra animali umani e non.

Oltretutto, tra animali umani e non umani non ci sono veri motivi di contrapposizione, non ci sono situazioni reali per cui si debba scegliere tra la vita di un animale e quella di un uomo. Ci sono solo ragioni di comodità, di abitudine, il solito "così si è sempre fatto" che ci portano a esercitare una violenza inaudita, orribile, ma perpetrata perché nascosta ai nostro occhi, lontano dalle nostre coscienze.

Mi riferisco in parte alla vivisezione, o sperimentazione animale che dir si voglia, ma, ancora di più, agli allevamenti intensivi e ai macelli, perché è qui che ciascuno di noi può, in prima persona, agire perché questa enorme quantità di violenza non necessaria (ma quando mai la violenza è necessaria...?) scompaia.

Così ci si può maggiormente avvicinare a uno stile di vita davvero non-violento. Non per coerenza (perché per chi non è solidale con nessuno è facilissimo essere coerente, ma non è certo un merito!), ma per desiderio di non fare del male, di non causare sofferenza.

Non è difficile agire in prima persona per non essere complici di questa violenza: ci sono centinaia di azioni quotidiane che compiamo dietro alle quali si nasconde una tacitamente accettata violenza gratuita e ingiustificabile. Basta capire quali sono, e non compierle più.

Questo deve essere il primo impegno: non fare male; poi, se si può e se si vuole, ci si impegna anche in prima persona per aiutare chi viene colpito dalla violenza altrui.

I modi per aiutare gli altri sono molti, e nessuno di noi, nel tempo che gli rimane libero dal lavoro o studio e dagli obblighi familiari può occuparsi di tutto. Perciò ognuno farà quel che gli è possibile per aiutare questo o quel gruppo di persone in difficoltà.

Nessuno può arrogarsi il diritto di giudicare quale attività di "volontariato solidale" sia la più degna, e etichettare chi si occupa di altro come "perditempo". Qualsiasi attività in grado di diminuire la sofferenza e di rendere più dignitosa la vita altrui è degna di rispetto.

Occuparsi dei diritti degli animali non umani non è meno importante che occuparsi dei diritti umani, perché la molla che fa agire è la stessa: l'empatia verso la sofferenza altrui, specie quella causata dalla sopraffazione del più forte sul più debole che non si può difendere.

Tutta questa sofferenza va eliminata. Nessuna sofferenza può essere giustificata dall'esistenza di altri tipi di sofferenza con altre vittime.
Non ci può essere una graduatoria, una "hit parade del male da eliminare".

Piuttosto, dobbiamo cercare di impegnarci tutti in questo, in tutti i campi, aumentare il numero dei volontari che aiutano, e diminuire quello di chi sa solo stare seduto in poltrona a guardare la TV e scandalizzarsi perché gli animalisti "aiutano i cani anziché occuparsi dei bambini che muoiono di fame".
Come se aiutando i cani si danneggiassero i bambini o se lasciando morire i cani si aiutassero i bambini... invece queste sono solo scuse per non aiutare nè gli uni nè gli altri.


Si ringrazia Marina Berati per l'articolo pubblicato su questo sito.




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